Dopo l’assassinio del trenino della “Stazione” – con i suoi fantastici e barocchi itinerari all’interno delle gole di Pantalica e degli altopiani iblei, straordinaria cavalcata, parafrasando Guccini, tra il V. Veneto e il West – l’unico modo di intraprendere un “viaggio” degno di questo nome, verso qualcosa che riesca a farci sgranare la mente e liberare gli occhi, è la lettura (ma più avanti vedremo come non di lettura si tratta) delle opere, rigorosamente suddivise in fogli volanti, di Antonio Carasi. Almeno a Floridia si viaggia così e già fisicamente Carasi – che in fin dei conti non si è mai allontanato da Floridia e dintorni – evoca il “viaggiatore”. Indifferente e solido come un monolite dell’isola di Pasqua (di “MU” preferirebbe lui) osserva, seduto in un sedile della piazza, lo svolgersi della vita floridiana con lo stesso sguardo con cui contemplerebbe il tuffo dei pescatori di perle a Taipee o la siesta sacra di un messicano a Tegucihualpa (ma esiste questa città? Il particolare realistico è insignificante per i grandi viaggiatori del sogno.) oppure appoggiato al muro della chiesa con quella sua caratteristica posa del piede che fa leva sulla parete, come una grossa gru pronta a prendere meglio lo slancio e decollare a bordo della sua macchina del tempo a cristalli sognanti monoposto. Ci teniamo ad essere i primi a scrivere di Carasi, lo consideriamo una “presenza” reale indiscutibile tra i “creativi” floridiani (che non sono molti in verità, potendosi contare sul palmo di una mano monca), anche se non a tutti può risultare digeribile, dato il suo gusto “forte”.
Carasi, da tempo immemorabile, nelle sue creazioni dà vita a quella che potrebbe definirsi l’epica de “l’Olimpo allargato o diffuso” perché riesce a saldare al suo “imprinting” originale di derivazione classica (i miti degli dei dell’Olimpo greco, i templi solari, le notti caotiche della creazione di mondi), nientemeno che i miti dell’immaginario collettivo, soprattutto cinematografico, dei nostri tempi: da Humprey Bogart a Marylin Monroe, ai grattacieli di New York alle pagode tibetane. Nell’Olimpo allargato di Carasi è normale incontrare il vecchio Boogie (H. Bogart) – impermeabile dal bavero alzato e l’eterna Lucky Stricke alle labbra – bersi un goccetto di Bourbon con una dea Venere appena uscita dalle acque inseguita da un dio Marte-Marlon Brando di Apocalipse now. È scontato che dall’universo carasiano, svicolando da un angolo di Ortigia, si possa sbucare in pieno Central Park in una New York tutta “di testa” (proiezione stroboscopica direbbe Carasi) dove il minimo che ti possa capitare è scambiare quattro chiacchiere con Allen Ginsberg di Juke Box all’idrogeno o, in un’atmosfera alla Chandler tra detective sfatti di vita e di alcool, incontrare addirittura “Lui” in persona, il dio Giove-Moby Dick di Carasi: il grande ispettore Callaghan, dio infallibile ma disincantato delle ingiustizie da vendicare, accanto ad una Minerva dark lady. Come al “Fuori orario” di Ghezzi, Carasi non butta niente del grande Blob dell’immaginario e dei sogni dell’uomo.
E solo Carasi – viaggiatore dell’irreale ed immaginario corrispondente da New York per “Televespe”, un programma di humour ed altro, apparso ed immediatamente sparito come una meteora su “Teleuno Tris” – può ingiungere a un taxista del Bronx: “… presto mi porti a Manhattan, devo specchiarmi in una vetrina della fifthy avenue.” Perché se l’Alice di Carroll ha la capacità liberatrice e trasgressiva di attraversare tutti gli specchi-prigione di questo mondo e sconvolgere le ipocrite regole della borghesia puritana alleandosi con tutti i diversi degli “altri” mondi, a Carasi tutto questo trapassar di specchi non è necessario. Carasi la libertà ce l’ha dentro, in un qualche tranquillo tempio greco dalla parte dei lobi frontali o presso qualche vecchia taverna di bucanieri piena di fumo, “spleen” ed esalazioni di wisky nel mar dei Sargassi nei dintorni del pancreas. A Carasi basta darsi una controllata ogni tanto – per quel minimo di narcisismo che ogni creativo ha in sé ed anche per una messa a punto ed una pettinata rapida ai suoi cristalli sognanti – nei riflessi di una vetrina della “Grande Mela” (e dove se no a Floridia?). Una cosa in ogni caso va chiarita: le creazioni carasiane non vanno lette, ma fruite per immagini. E non c’è niente da capire. È necessario soltanto allacciare le cinture di salvataggio (possono esserci turbolenze immaginifiche in alta quota, magari presso la costellazione di Andromeda) e soprattutto essere consapevoli che di viaggio si tratta.
Non possiamo congedarci dal vecchio Carasi – frattanto alle prese con la quarantacinquesima sigaretta al labbro – senza accennare al suo procedere per “estraniamenti” successivi. Tecnica che coinvolge-stravolge, da buon surrealista, persino la struttura formale del suo impianto linguistico. Anche qui basta svoltare l’angolo per impattare in una frase o in una parola che nessuno dei normali medii-padri di famiglia avrebbe mai previsto dovesse trovarsi là. C’è tutta la grande lezione delle psico-porte atmosferiche di R. Magritte. Quelle inquietanti porte che in genere “non vanno mai aperte”, pena tremende espiazioni-iniziazioni. Tema sempre presente, questo delle porte da non varcare: dai testi sacri (cos’era la mela di Eva se non una porta?) alle favole (Barbablù), all’immaginario cinematografico horror dei nostri giorni. Con la differenza essenziale che se negli incubi “significanti” (perché proiezioni delle zone oscure della nostra quotidianità) dei vari Craven, Tobe Hooper, Sam Raini, Cronemberg o S. King, le porte è meglio chiuderle con un lucchetto e magari addossarci il vecchio pianoforte del salotto buono, in Carasi è sempre consigliabile aprirle, ma senza esagerare. Una leggera tunica greca (ma portatevi anche un cardigan non si sa mai), un vecchio scudo assiro per ripararsi anche dalla pioggia, bende di mummie egiziane per fasciature, un impermeabile alla Bogart o alla commissario Colombo, i lunghi guanti di seta nera di Gilda-Rita Hayworth, la 44 Magnum di Callaghan (che è meglio del Valium) e puoi andare milioni di anni luce lontano… praticamente dentro te stesso nelle periferie inesplorate ed ataviche del DNA o negli archetipi junghiani dell’inconscio collettivo.
Antonio Mangiafico