Da sud, oltre il tempio dello zefiro, mentre gocciola l’ultimo raggio di sole nel siderio l’illimitato comma delle stelle io consulto in un testo di eterne sirene.
La luna sospesa e immota sta, e già si leva in un cosmo intonato di fiori il canto della luce, come il ritmo del peccato che ieri già ti sconvolse il cuore. Perché tu, Fenicia, il candido cespuglio inondasti di sospiri e dolci lacrime… e lui, il giaciglio sollevò nello spazio di mezzanotte e il tormentato assillo delle chimere che il grido ripetevano nella tua luminosità.
Il manto cancellò dello scudiero che quivi intonò il vagito delle civette nei sentieri della città, e il rettile sospetto ingoiò nel canto la funesta mandragola di notte precipitando giù per le scarpate tremende, urlando il nome orgiastico della luna che mai il sogno immemore del viso del guerriero inclinò nel verso della lupa.
Or che già si leva il sospiro antico delle moschee quaggiù passano i vespri anzitempo a uccidere il pascolo dell’agnello e il vetusto mare di Sicilia che, tra Scilla e Cariddi, il malinconico aere solleva nel canto della luna.